Per la Serenissima esistevano libere Comunità e non territori amministrativi. Oggi per noi recuperarle è un impegno essenziale

Venezia in veste di Giustizia, di Jacobello del Fiore. Museo dell’Accademia.

Articolo pubblicato come nota n. 1 del comunicato n. 1331, del 9 novembre 2013, de «Il Libero Maso de I Coi». L’articolo prende spunto dal termine frazione che compare in un documento del 3 novembre 1836 lì da me trascritto. Ripubblico l’articolo con alcuni, lievi ritocchi, che spero possano rendere più chiara l’esposizione di quanto intendo dire.

Dopo il colpo di Stato che segnava la fine dell’indipendenza della Repubblica di Venezia (ufficialmente ma non realmente della sovranità del suo Popolo), il territorio era stato suddiviso d’imperio, dall’alto, in province, distretti, comuni, frazioni. Prima, invece, non esisteva nulla di tutto ciò; c’erano solo delle libere Comunità, autonomamente strutturate secondo i propri bisogni. Eventualmente, perciò, la Repubblica faceva riferimento, per le esigenze di ordine generale, ai suoi rappresentanti, detti podestà e capitanî, che entravano in carica però solo dopo aver giurato di rispettare gli statuti di autonomia locale; oppure si riferiva a quelle cellule sociali, che nel corso del tempo avevano acquisito funzioni pubbliche, ch’erano le Regole; in alcuni casi la Repubblica si serviva persino dei «buoni servizi» dei parroci e della struttura ecclesiastica, poiché tutta la gente partecipava alle S. Messe festive e dunque in quelle occasioni potevano essere letti dei proclami pubblici.

È molto importante avere chiara coscienza di ciò. Sapere che in antico gli Stati non costituivano, a loro funzionali, le circoscrizioni amministrative territoriali, ma essi prendevano semplicemente atto del libero e previo costituirsi delle Comunità. È evidente che la concezione antica era democratica e liberale, la seconda (che ancora seguiamo, ciechi della prigione amministrativa in cui ci chiudiamo e veniamo chiusi dalla concezione di Stato impostasi, e impostaci, come dogma) è autoritaria e arbitraria, fatta non nell’interesse delle Comunità, ma dello Stato stesso, centralista e organizzatore, perciò antidemocratico e antiliberale, come ben appare dai giochi sporchi dei partiti. Uno Stato che, per quanto riguarda la penisola italiana, è lo stesso che da prima si chiamava regno di Sardegna (si osservi che al 1836, data del documento da cui parte la nostra riflessione, anche il regno di Sardegna-Piemonte non aveva alcuno statuto!), poi si auto-battezzò (ufficialmente proclamò) regno d’Italia, per finire col dirsi Repubblica Italiana, che continua, assurdamente, ancor oggi a farla da padrone di Comunità libere.

 Bisogna assolutamente tornare alla concezione giuridica pubblica antica e ridimensionare drasticamente il ruolo dello Stato nella vita delle libere Comunità locali.

Ma sembra siamo ormai lontani anni luce dal senso di libertà che avevano le generazioni precedenti alla nostra! Sembra che ormai ci siamo rassegnati a dover dipendere dallo Stato, anziché essere padroni delle nostre vite e responsabili della nostra Comunità, del suo territorio, dei suoi beni comuni e del suo sistema organizzativo interno.

Nel caso concreto, documentato dal documento del 1836 in esame, lo Stato era il regno Lombardo-Veneto. Era un regno unico (unitario), ma a struttura federale (federativa), ossia istituzionalmente diviso al suo interno in Lombardo e in Veneto, con due governi distinti, il primo residente a Milano, il secondo a Venezia; l’unità del regno era data solo dalla persona del re titolare, che era poi lo stesso imperatore, il quale si faceva rappresentare da un viceré, che risiedeva, per entrambi i due regni uniti, a Milano.

Il governo imperiale austriaco aveva continuato, ahimè, il sistema amministrativo introdotto da quello invasore dei Francesi, evidentemente perché ne condivideva lo spirito autoritario e lo sforzo di far perdere ai Veneti (tra i quali rientravano i Friulani) e ai Lombardi (già della Serenissima o del disciolto ducato di Milano) il senso della loro storia e delle loro antichissime indipendenze e autonomie statutarie. In base ai criteri franco-austriaci, sia il Veneto che il Lombardo erano così stati suddivisi in province, che a loro volta erano sub-suddivise in distretti, queste poi in comuni (al femminile, le comuni) e queste da ultimo in frazioni.

Ho ricordato tutto questo per evidenziare come l’espressione frazione, qui usata e ancor oggi in uso, sia il segno e il perdurare delle violenze giuridiche e delle violazioni del diritto dei Popoli allora perpetrate, e non ancora cessate, a danno delle povere Comunità locali, che, durante i laboriosi anni di appartenenza alla Repubblica della Serenissima, non s’erano mai immaginate di chiamarsi frazioni, ossia parti di una comune o d’altro ente amministrativo ad esse superiori.

Uomini e donne che amate la libertà, riflettete, vi prego, su tutto questo! Dobbiamo essere uniti e ben consapevoli, per far cessare questo scempio e questa tirannide, che la Repubblica Italiana continua a danno delle Comunità della Serenissima Repubblica di San Marco!

Bolla in piombo del doge Enrico Dandolo

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